LE "RADIOSE GIORNATE" DELLA PRIMAVERA DEL '45                      


FESTA O LUTTO? “PAR AUT IMPAR CONDICIO”?
Italo Merli
 
 
    Ispiratore di questo articolo è Padre Pellegrino Santucci, del quale il «Secolo d'Italia» ha pubblicato una lettera il 16 febbraio u.s. Il tema è quello di moda da qualche tempo in qua: la «par condicio», il rispetto, cioè, nei limiti delle risorse morali e intellettuali dell'uomo e in un clima di autentica libertà e democrazia, delle regole che presiedono la libera e civile convivenza nella società. Il discorso oggi si fa particolarmente interessante, perchè ci avviciniamo velocemente alla scadenza del cinquantenario del 25 aprile; ad una data, vogliamo dire, che rappresenta una tappa importante nella storia della nostra Patria, e sulla quale, pertanto, occorre riflettere.
    Padre Santucci, ripeto, ce n'offre lo spunto. Oscar Luigi Scalfaro, cristianissimo Presidente della Repubblica, giorni fa, a Reggio Emilia, ha replicato quello che 15 anni fa fece Sandro Pertini, anche lui Capo dello Stato, seppure di marca socialista e presumibilmente ateo. L'uno e l'altro hanno reso omaggio alle tombe dei sette fratelli Cervi, catturati e fucilati dai fascisti alla fine dell'anno 1944. Azioni meritorie, queste, dei due insigni personaggi, ma incomplete e quindi insoddisfacenti, perchè irriguardose delle norme che informano (o dovrebbero informare) la condotta di chi, super partes, vigila sul destino della Nazione.
    Padre Santucci non sembra molto propenso ad assolvere l'amico Scalfaro dal peccato di «omissione»; il sottoscritto, il 27 aprile 1980, così mandava a dire a Pertini:
 
    Signor Presidente della Repubblica la visita alla tomba di Alcide Cervi e dei sette suoi figli partigiani, fucilati dai fascisti durante la guerra civile, poteva, a mio parere, stimolarla ad allungare un po' il percorso per rendere omaggio alla tomba dei sette fratelli Govoni barbaramente trucidati e seviziati dai partigiani l'11 maggio 1945, sedici giorni dopo la fine delle ostilità.
    Le rendo noto, signor Presidente, che ai sette fratelli Govoni, uno solo dei quali aveva militato nei reparti combattenti della R.S.I., apparteneva anche una donna di vent'anni, Ida, madre di una bambina di pochi mesi. Non Le pare, on. Pertini, che il rappresentante del popolo italiano, quindi anche di coloro che 35 anni fa decisero, in piena libertà, di scegliere una trincea diversa dalla Sua, avrebbe dovuto, nella circostanza, eseguire un gesto di umana pacificazione fra gli Italiani? Chi meglio di Lei poteva e può compiere un atto così esaltante? Oppure il Presidente della Repubblica preferisce essere chiamato «Sandro» fino all'ultimo dei suoi giorni?
 
    Ovviamente la lettera non ottenne risposta. Ma ritorniamo al 25 aprile 1995, al cinquantenario, per loro, della liberazione, per noi, del calvario. Allora chiediamo se cinquant'anni di fedeltà alla Patria, di rispetto alle leggi dello Stato, di amore per i nostri fratelli caduti a decine di migliaia, prima, ma soprattutto dopo la conclusione ufficiale, sul suolo italiano, della guerra, caduti, si badi bene, perchè vollero difendere l'onore dell'Italia, offeso con la resa incondizionata di Cassibile, noi chiediamo se tutto questo merita considerazione da parte della collettività nazionale e, in primo luogo, delle autorità centrali e periferiche dello Stato.
    Desideriamo inoltre sapere se il 25 aprile 1995 sarà linea invalicabile di demarcazione fra i vinti e i vincitori della guerra civile, o momento di riflessione e di riconciliazione sincera e definitiva fra coloro che 50 anni fa si sparavano addosso in nome della libertà da una parte, dell'onore dell'altra; se, quindi, possiamo davvero sperare nell'avvento della seconda repubblica, o dobbiamo finire di imputridire nella palude della prima. Per essere, al riguardo, meglio compresi, consentite che esibiamo alcune carte di identità.
 
    Il riminese Paolo Carlo Broggi, ufficiale della Divisione alpina «Monterosa», ferito e catturato dai partigiani, in Garfagnana, il 30 ottobre 1944 e fucilato, a 21 anni, cinque giorni dopo, scrisse nel suo diario: «Fa', Signore, che l'Italia si salvi; fa' che la vergogna scompaia dalla fronte dei suoi figli: se per questo occorre sangue, eccomi: prendi il mio e quello di chi, come me, ama l'Italia: sarà gioia di sacrificio e le lacrime delle nostre mamme saranno rugiada sui fiori della libertà, della vera, unica libertà».
    Giampiero Civati, anch'egli della «Monterosa», preso e ucciso dai partigiani il 5 dicembre 1944, ci ha lasciato un quadernetto, rinchiuso nel tascapane, in cui si legge: Pochissime parole spiegano le mie idee e il mio sentimento: sono figlio d'Italia d'anni 21. Non sono di Graziani e nemmeno badogliano ma sono Italiano; e seguo la via che salverà l'onore d'Italia.
    Umberto Lanzetta, morto in combattimento nella valle del Serchio, aveva scritto alla madre pochi giorni prima (28 novembre 1944): “E’ molto bella la tua preghiera. Se veramente tutti sentissero lo spirito di essa a quest'ora l'Italia sarebbe salva. Ma vedrai che ritornerà libera e grande. Non importa se i nostri sacrifici non saranno riconosciuti e saranno dimenticati o derisi. Quale premio più grande della nostra coscienza di aver agito per una causa pura, nobile e grande?”
    Gino Lorenzo, vent'anni, ufficiale del Battaglione «Romagna», a chi, conducendolo al supplizio la notte fra il 3 e il 4 maggio 1945, certamente per impressionarlo gli indicava il luogo dell'esecuzione, rispose: «La croce che Gesù ha portato non può far paura a un cristiano!». L'imolese Francesco Mariani, maresciallo della GNR, marito, padre e cittadino di singolari virtù, il 24 maggio 1945 dalle carceri di Verona scriveva ai familiari: «Sembra che lunedì la commissione inizi gli interrogatori. Saranno rapidi. Cercate quindi di stare bene e non preoccupatevi per me, perchè sono certo che sarò scarcerato».
    Tre giorni dopo, domenica 27, sul mezzogiorno, veniva linciato in piazza a Imola con undici suoi compagni di sventura da una folla imbestialita. Notata un'ampia rappresentanza di femmine inferocite.
    Stellio Romagnoli di Corno, morto a 24 anni nel sanatorio di Sortenna, ci ha consegnato questo testamento spirituale: «E’ necessario che dica anch'io che adoro e darei tutto per la ‘nostra’ Italia. E’ necessario che dica tutta la mia fierezza e il mio orgoglio di essere un paracadutista della 'Folgore'. Non rimpiango gli anni che ho sacrificato per la mia Patria. Mi hanno fatto uomo e mi hanno insegnato a riconoscere i più luridi strozzini dell'universo, i grossisti di uomini, i maledetti banchieri dell'onore che hanno portato l'inflazione nel campo più sacro:  quello del dolore e del sacrificio».
    Di Ferruccio Spadini, mantovano, padre di cinque figli, Maggiore pluridecorato, combattente nella guerra 1915-18, in Africa Orientale e in Albania, fucilato a Brescia il 13 febbraio 1946, assolto il 22 aprile 1960 dalla Corte Suprema «per non aver egli commesso i fatti addebitatigli», la vedova, nel giorno anniversario della fucilazione, distribuì ad alcuni intimi il seguente ricordino: «Tu non sei morto: ancora una volta sei innanzi a noi come sulle balze del Grappa e sulle pietraie del Carso o fra le sabbie dell'Africa o fra le impervie regioni albanesi, che videro il tuo giovanile entusiasmo e il tuo animo generoso. Tu ci chiami e ci attendi là dove tacciono gli odi e i rancori e dal Cielo infondi fede e forza a chi ti chiama pregando». Nel 1918, Gabriele d'Annunzio definiva Ferruccio Spadini «compagno d'arme che per predestinazione eroica porta nel suo stesso nome l'acciaio e il ferro».
    Myrio Montanari, capitano della GNR, nato a Fontanelice BO, il 3 settembre 1944 confidava alla moglie: «Nell'eventualità ti chiedessero di me, di' loro che io andrò al fronte e che a fine guerra, se saremo noi i vincitori, io tornerò tranquillo e contento al mio paesello; se saranno loro, io non andrò alla macchia, ma mi consegnerò ai loro tribunali, sicuro di un giudizio sereno, in un'Italia santificata da tanti sacrifici».
    Myrio Montanari, mentre ai primi di maggio tornava a casa per riabbracciare la sua donna e i suoi due bambini, sparve nel tratto compreso fra Argenta e Lavezzola, e nulla di lui s'è mai più saputo. Aveva 27 anni.
    Enrico Vezzalini, infine, condannato a morte a Novara il 14 giugno 1945 da un tribunale che non gli permise di usufruire di un solo testimone a discarico, in un processo che vide Oscar Luigi Scalfaro, pubblico ministero, chiedere con l'angoscia nel cuore - dice lui - la pena capitale per una vittima predestinata; Enrico Vezzalini il 23 settembre successivo, data della sua fucilazione, disse alla moglie: «sono stato sinceramente onesto in tutta la mia vita privata, lealmente soldato in tutta quella politica. Non mi atteggio a martire; ma tu almeno non disprezzare questa fedeltà che riaffermo nel momento in cui mi costa la vita».
 
    Questa che affidiamo ai nostri lettori, è una piccola, piccolissima parte dei documenti che abbiamo pubblicato cinque anni fa e che ripubblicheremo fra poco, ampliandoli, nel volume «La Repubblica Sociale Italiana nelle lettere dei suoi Caduti».
    Voglia Iddio che il sacrificio di tanti Martiri non sia stato sterile; che gli Italiani, tali di nome e di fatto, i timorati di Dio, coloro che sdegnano il tempo dell'odio, comprendano che alla Seconda Repubblica si può accedere solo a patto che i Caduti, vinti e vincitori della guerra fratricida, siano ricordati e onorati con pari dignità.
    Visto, anche, e considerato il clamoroso fallimento della Prima, fondata, appunto, sulla «impar condicio».
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 3. Marzo 1995. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)  

IL GRANDE INVALIDO GIORGI SIRO ASSASSINATO IL 27 APRILE 1945 MUTILATO DI AMBEDUE LE GAMBE Ecco ciò che avveniva nelle “radiose giornate” del 1945
 
 
    Le gambe le aveva lasciate sulle montagne nevose del fronte Greco- Albanese, mentre tentava con disperato coraggio di portare in salvo altri Legionari colpiti dal nemico e che chiedevano aiuto. 
     "Addio cumandant! L'è finida!" Queste le sue ultime parole: questo l'ultimo saluto di un camerata condannato a morte da un "tribunale del popolo”, quello della 118a brigata “garibaldina” comandata da un certo Gianni il 27 Aprile 1945.
    Milano, notte alta e profonda, notte di ansia, notte di dolore e di rimpianti. Rivivevo in quelle lunghe ore di attesa tutta la mia vita: lo studio, l'Alalà di D'Annunzio che mi affascinava, le prime lotte, Mussolini e la guerra.
    Il dramma precipitava, prigioniero d'italiani! Nell'ora della morte incombente il pensiero volava alle piccole creature ignare, di uno e due anni che il giorno successivo sarebbero rimaste al mondo senza il loro caro papà. Volava il pensiero ad una donna coraggiosa, che aveva sempre condiviso con me i disagi della guerra, le ansie e le privazioni di ogni giorno.
    Sfilavano, silenziosi come fantasmi vicini e lontani, mio Padre incanutito innanzi tempo, mia madre, i miei fratelli combattenti in altre zone, ignari anch'essi della tragedia che mi stava travolgendo, ingiusta e spietata.
    Sporco, lacero, affranto e sofferente, attendevo ormai rassegnato la mia fine. L’alba non lontana avrebbe concluso la mia sofferenza. La condanna a Morte era stata pronunciata.
    Le Otto! Due giovani imberbi e armatissimi mi sorreggono e conducono nell’aula del Tribunale per le ultime formalità.
    Mentre attendevo di essere condotto sul luogo della esecuzione, (piazzale Susa) odo una voce nota, la voce di un camerata, la voce robusta e ferma che grida "se dové fucilé, fucilem, non la fem tanto longa!".
    Era Giorgi Siro, caro indimenticabile Camerata senza gambe! Aveva pronunciato quelle parole veementi, con la fierezza del Soldato.
    La porta si apre, appoggiato ai suoi bastoni, scortato da armati, esce dal “tribunale” a fronte alta, il volto accigliato, severo e dignitoso.
    Sulla rampa delle scale s'incontra con la moglie e la figliuola di soli quindici anni, alle quali, per oltraggio, erano stati tagliati i capelli a zero.
    Le abbraccia, le bacia, e senza una lacrima si avvia verso il Calvario.
    Ora mi scorge! Mi guarda un attimo, forse sorpreso e addolorato che anche io dovessi subire la stessa sorte. Alza uno dei bastoni ai quali deve appoggiarsi per non cadere, e ad estremo saluto con voce alta e vibrante mi dice: Addio Cumandant, l'è finida!!
    Addio, risposi, e non potei trattenere una lacrima che brillò un attimo nei miei occhi arrossati. Addio dissi, ed avrei voluto abbracciarlo, tenerlo stretto a me come un fratello. Addio ripetei e fu tutto.
    La scarica dei servi dei nemico lo colpì sul fianco, mentre tentava ancora, in un ultimo anelito di vita, di essere colpito al petto alzando il braccio nell'ultimo saluto.
    Le rose rosse del sacrificio supremo spuntarono sui fianchi martoriati dal piombo.
    Cosi cadde Giorgi Siro, Legionario dell’Armata dell'Onore.
 
 
LA LEGIONE N. 2 Apr-Giu 98 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)  

SASSUOLO 1945
    Tra le notizie forniteci dal Tomasini, abbiamo trovato anche una ricostruzione della morte di Sirola, parte dovuta alle informazioni di Brenta, parte alla raccolta di notizie fatta sul posto e negli archivi giudiziari di Modena. E come c è stata trasmessa ve la riportiamo.
 
La morte di Aldo Sirola
    "Il Tenente Aldo Sirola era Aiutante Maggiore del III/5° reggimento della Divisione Fanteria di Marina "San Marco".
    Laureato, nato a Fiume nel 1920, aveva già combattuto come Ufficiale nel Regio Esercito. Secondo l'Albo d’Oro dei caduti della Venezia Giulia e Dalmazia a cura di Luigi Papo, Il tenente Sirola risulta ucciso il 25.5.45 dai partigiani (in realtà la data esatta dovrebbe essere il 21 o il 22 aprile ndr). Il tenente Sirola è descritto da un suo marò come "un uomo tra i trenta e i quarant’anni, alto 1,8°, fisico atletico, biondo". E’ stato visto per l’ultima volta proprio dopo Maranello, in direzione di Sassuolo. "Giunti a Maranello – racconta un marò di San Marco – si proseguì verso Sassuolo e dopo mezz’ora circa il tenente Sirola, non ferito ma dolorante e sfinito, decise di fermarsi vicino ad una casa. Posso dire che salutandolo piansi. Ci abbracciò piangendo anche lui. Eravamo sulla strada diretti verso Sassuolo, da dove proseguimmo per Correggio e il Po attraversando il territorio reggiano".
    Mezz’ora di strada dopo Maranello significa Spezzano o Fiorano, o addirittura il campo sportivo di Sassuolo. Di lui si sa solo quello che emerge dal fascicolo del giudice istruttore del Tribunale di Modena. Aldo Sirola si era staccato dalla sua colonna in ritirata, e pare si fosse fatto dare un vestito da civile. Non si sa se si sia consegnato o se sia stato catturato dai partigiani, i quali lo hanno soppresso sul posto con un colpo alla nuca. 
    Don Zelindo Pellati (parroco di Sassuolo che molto si diede da fare in quei giorni nel vano tentativo di impedire le stragi dei prigionieri inermi ndr) lo venne a sapere da due donne di Gioia Tauro sfollate a Sassuolo che poi rientrarono al loro paese e non fu possibile rintracciare. O per lo meno così dichiarò agli inquirenti che aprirono un fascicolo contro ignoti per omicidio, 
    Monsignor Pellati avvisò i parenti che successivamente poterono riesumare la salma. 
 
 
SAN MARCO N. 20 Aprile Giugno 1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

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